Il Fucino, il fertile territorio su cui insiste l’omonimo lago - uno dei più grandi d’Italia - il quale, una volta prosciugato nel 1878, era diventato uno sconfinato e ricco latifondo controllato dai principi Torlonia; ma la gestione dei Torlonia scatenava, da anni, il malcontento dei contadini, ritenuta iniqua nei confronti dei lavoratori e che, più volte, era sfociato in diverse manifestazioni e “scioperi alla rovescia”.
Il 30 aprile 1950 è una domenica. Dopo l’ennesima protesta, i contadini riescono a strappare la promessa di una nuova redistribuzione dei lavori: “250 mila giornate lavorative” viene detto loro. Per questo motivo, quella sera d’aprile, tutti i presenti in piazza si attardano, certi della vittoria appena conquistata.
Ad un certo punto arrivano tre carabinieri, accompagnati dal maresciallo; tutto però lascia pensare che siano arrivati per constatare la tranquillità della situazione. Entrano in municipio e, dopo esserci stati per pochi minuti, si avviano verso la caserma. Ma, prima di scomparire tra le vie del paese, il piccolo gruppo fa partire due colpi di pistola. È un chiaro segnale: immediatamente dall’altra parte della piazza partono altri spari, coordinati da organizzazioni fasciste legate ai Torlonia.
In un lampo il centro di Celano si trasforma nel teatro di una carneficina: perdono la vita due braccianti, Antonio Berardicurti e Agostino Paris, di 35 e 45 anni. I feriti, invece, almeno 12.
Per quasi 20 ore viene tenuto il silenzio sull’episodio fino a quando, la mattina del 2 maggio, l’Unità apre così la sua prima pagina:
«Si spara sui disoccupati che chiedono lavoro! Infame eccidio di lavoratori in Abruzzo, due contadini uccisi e dodici feriti - La criminale sparatoria di Celano - Sciopero generale in tutto l’Abruzzo - La C.G.I.L. denuncia la connivenza tra i carabinieri e gli squadristi di Torlonia - L’Esecutivo confederale riunito d’urgenza»
Vengono riportate ricostruzioni, testimonianze, dinamiche: si scopre che il massacro era premeditato e, probabilmente, volto all’eliminazione del compagno Gianni Cantelmi, segretario della sezione Comunista locale. Uno degli assassinati, infatti, cercava di ripararsi proprio accanto a lui.
La risonanza della notizia rimbalza subito in tutto il Paese, gli esponenti dei partiti e dei sindacati, tra cui Giuseppe Di Vittorio, raggiungono Celano per partecipare ai funerali dei due braccianti, diventati - loro malgrado - simbolo della rivolta contadina che, nel 1951, porterà alla distribuzione delle terre agli abitanti del territorio.
Non per i caduti, però. L’amarezza per la loro perdita e il loro ingiusto sacrificio è racchiusa nelle povere e semplici dichiarazioni della vedova Berardicurti:
Sei partito vivo per aver pane, ti hanno riportato ucciso